FRANCESCO CHIEDE (DESIDERA) TUTTO L’AMORE E TUTTO IL DOLORE (Gv 12,20-28.32)

Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: “E’ venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata e che cosa dirò? Padre salvami da quest’ora? ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre glorifica il tuo nome. (…) Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me.

(Gv 12,20-28.32)

Il nostro itinerario sul desiderio ci conduce quest’oggi a meditare su quello che è il vertice dell’amore: il desiderio di amare fino a soffrire con e per la persona amata, come ha fatto Gesù: è Lui che sempre ci indica la strada, poiché si è fatto nostro Maestro e nostra Via per ricondurci al Padre. Gesù stesso ha amato fino a donare tutto sé stesso per amore del Padre e di ciascuno di noi: “spogliò sé stesso … fino alla morte di croce” (Fil 2,7).

A poche settimane dalla grande Settimana, la Settimana Santa, siamo invitati a sostare dinanzi alla Croce di Cristo, a contemplare il suo amore “sino alla fine” (Gv 13,1). Seguendo l’esempio del nostro padre san Francesco, siamo chiamati a spingerci “oltre”, a desiderare di stare con Gesù nell’ora della sua Passione per sperimentare tutto l’amore che lo ha condotto a dare la vita per noi, e tutto il suo dolore per non lasciarlo solo nell’ora della sua morte. E’ questo un desiderio “audace” ma chi ama fino in fondo sa portare l’amore sino alle sue estreme conseguenze, fino a prendere su di sé la sofferenza, non solo patire insieme ma anche caricarsi del peso dell’altro, soffrire al posto dell’altro, sostituirsi al suo dolore, dare la propria vita per l’amato. Con la sua Passione e morte di croce Gesù ha fatto questo per noi, ha portato su di sé il peso dei nostri peccati, le nostre sofferenze, il nostro male, ha “pagato” al posto nostro per ridonarci la comunione con il Padre e la nostra dignità di figli. Con il suo amore e la sua sofferenza Gesù ha colmato la distanza che il peccato ha posto tra Dio e l’uomo ed è venuto incontro ad ogni uomo. Una sofferenza, quella del Cristo, piena di amore e di perdono, di compassione che però chiede la nostra partecipazione, se lo vogliamo.

Con la sua croce Gesù ha volontariamente sofferto per noi, la sua esperienza del dolore non toglie questo mistero all’umanità, ma fa sì che tale sofferenza trovi un senso profondo in Lui, Gesù si fa prossimo ad ogni uomo che vive l’ora del buio, della prova, della malattia. La croce di Cristo non risponde alle domande dell’uomo sulla sofferenza in modo razionale perché Gesù vince questo mistero assumendolo, non eliminandolo: in questo modo ci mostra un amore che va oltre, che è tale da vincere la morte stessa. Egli risorge attraversando il tunnel oscuro della morte. Il discepolo che contempla il mistero di Dio che si fa uomo, che sopporta l’umiliazione e soffre per gli uomini è a sua volta chiamato ad elevare la propria sofferenza al livello della Redenzione e a far sì che essa diventi esperienza di amore. Di fronte al dolore, ognuno di noi è in un certo senso messo alla prova, siamo chiamati a scegliere se percorrere la via della disperazione, della tristezza che ci porta a chiuderci, a diffidare di Dio stesso e in definitiva a soffrire da soli, oppure se offrirci, lasciarci purificare da quanto stiamo vivendo e unire la nostra sofferenza alla croce di Gesù, il nostro dolore al suo perché divenga esperienza di amore per noi stessi e per altri.

Una delle esigenze più radicali della sequela di Cristo è quella di prendere la propria croce ogni giorno e seguirlo, perdere la propria vita per salvarla (Lc 9,23-25): questo atteggiamento più volte ripetuto da Gesù nei Vangeli, è una condizione necessaria per stare con il Signore, per andare dietro a Lui e seguire il suo stesso stile di vita, non è domandato soltanto ai Dodici o a coloro che sono chiamati a seguirlo più da vicino, ma è un atteggiamento richiesto a tutti; a quanti si avvicinano a Gesù Egli esorta a prendere la croce: la pesantezza del proprio limite e peccato, le contrarietà della vita, ciò che ci “scomoda” e ci fa soffrire, accogliere tutti con carità, siamo esortati dal Cristo stesso e dal suo esempio a perdere, donare tutto per trovare vita in abbondanza (cfr Gv 10,10).

Il brano del Vangelo che abbiamo letto ci inserisce in un momento decisivo della vita di Gesù: è giunta la sua “ora”, l’ora della consegna. Come uomo Gesù ha sperimentato su di sé tutto il turbamento di questo momento: è da notare che il verbo greco (psukh’) utilizzato dall’evangelista per indicare questo momento dell’animo di Gesù è lo stesso che veniva usato per indicare il movimento del mare sotto un vento impetuoso, il movimento della tempesta: Gesù vive il travaglio di rendere concreta la sua scelta di entrare nel mondo per dare la vita, sperimenta fino in fondo lo sconvolgimento e la paura del dolore e della morte, comuni ad ogni uomo. Gesù ha davanti a sé la meta: la croce, obiettivo cercato e voluto per amore degli uomini, il Figlio dell’uomo è venuto per dare la sua vita in riscatto per tutti (cfr Gv 3,17) e rivelare così l’amore del Padre; tuttavia l’animo umano di Gesù è sconvolto di fronte a tanto dolore. Ancora una volta Egli ci indica la strada quando viviamo l’ora del turbamento, quando siamo affaticati e appesantiti dalle difficoltà e dal dolore, ed è quella della consegna fiduciosa nella mani del Padre: Padre glorifica il tuo nome (Gv 12,28), che significa sia fatta la tua volontà, sia santificato il tuo Nome nella mia vita, mi fido di te. Il Nome del Padre è glorificato ogni volta che accogliamo la sua volontà, ogni volta che docilmente e con amore di figli ci mettiamo nelle sue mani e siamo certi che Egli ha sempre un progetto di bene per noi.

Possiamo chiederci: sono disponibile ad accogliere quanto il Signore vuole da me? mi fido che le sue vie, anche se diverse dai miei progetti, conducono ad un Bene maggiore? Unisco le mie sofferenze a quelle di Gesù facendone cosi un’occasione di purificazione e di redenzione?

Alla domanda dei greci che vogliono vederlo Gesù risponde in modo inaspettato, Egli non va loro incontro come ci aspetteremo, ma mostra il “luogo” dove incontrarlo: sulla Croce, è lì che vediamo Gesù e scopriamo il vero volto di Dio tanto cercato e desiderato, in quel volto percosso e umiliato contempliamo i tratti della bellezza divina. Ai piedi della croce ascoltiamo i battiti del cuore di Dio che ama e soffre per l’umanità, qui ci incontriamo con l’amore vissuto sino alla fine, l’amore del Signore che non si tira indietro di fronte a niente per ciascuno di noi, un amore che si arrende di fronte alla nostra libertà e si consegna totalmente nelle nostre mani. La croce è l’altezza dell’amore, l’altezza da cui Gesù attira ogni uomo a sé.

- Sono consapevole di questo amore che mi viene donato gratuitamente? Come mi pongo di fronte alla croce?

Avvicinandoci alla Settimana Santa siamo coinvolti personalmente in questo mistero di amore e dolore, là dove è il Maestro devono trovarsi anche i discepoli non come spettatori che guardano da lontano, ma siamo chiamati a prendere parte del suo mistero in modo particolare, ad accostarci al Signore, a toccare le sue piaghe, a sostare di fronte alla Passione di Gesù è Lui stesso che ce lo chiede: Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.

Parlando della sua Passione Gesù usa un’immagine ricca di significato: “se il chicco di grano caduto a terra non muore rimane solo, se invece muore produce molto frutto”, Egli paragona sé stesso a un chicco di grano frantumato, macerato nel terreno per portare molto frutto, per dare vita. Ancora una volta siamo di fronte al paradosso evangelico del perdere per trovare, spendere la propria vita per custodirla, vendere tutto per avere un tesoro nel Regno dei Cieli (Mc 10,21) donarsi per essere occasione di vita per altri. E’ questa la strada percorsa dal Cristo e richiesta ad ogni discepolo, quella dell’uscita da sé stessi, il non considerare un tesoro geloso la propria vita (cfr Fil 2,6), ma donarla non tanto nelle “grandi” occasioni, ma nella concretezza delle vicende quotidiane. Ognuno di noi è chiamato a non considerare la propria vita come una proprietà personale: nessuno vive per sé stesso, chi vive così cercando di sfruttare la vita in realtà la perde, Gesù ci chiede di dare la vita non di prenderla, offrire la nostra vita, donando noi stessi, dando amore, consolazione e speranza a coloro che il Signore mette lungo la via della nostra esistenza.

Il chicco di grano che deve “spezzarsi” nel terreno per assorbire in sé le forze della terra e così divenire stelo e frutto, è Gesù stesso “chicco di grano” venuto da Dio, che si lascia cadere a terra, si lascia spezzare, rompere nella morte e così porta frutto nella vastità del mondo, in quanto risorto Egli oltrepassa i limiti spazio-temporali e raggiunge gli uomini e le donne di tutti i tempi, in Lui risorto tutto è ricondotto al Padre.

“La croce è la legge fondamentale dell’amore: noi diveniamo noi stessi solo quando ci doniamo… la via della croce che è la via dell’amore del perdersi e del donarsi, fa parte della sequela, l’andare con Lui. Questa sequela si realizza nel “noi”, nessuno di noi ha il proprio Gesù, lo possiamo seguire soltanto se camminiamo insieme con Lui, entrando in questo “noi” e imparando con Lui il suo amore che dona. La sequela si realizza in questo “noi” , nell’essere Chiesa … L’uomo è veramente sé stesso nella misura in cui vive di Dio e per Dio riconoscendolo e amandolo nei fratelli”. (Benedetto XVI, 14 Marzo 2010)

San Francesco, che in tutto vuole seguire e imitare Gesù, vive in modo radicale questa Parola del Vangelo, cercando di vivere sempre nel dono di sé, e nella povertà totale. Egli è un “povero”, uno che si spoglia progressivamente di tutto per vivere abbandonato nelle mani del Padre.

Francesco accorda progressivamente ogni fibra del suo cuore all’umanità del Figlio di Dio, fa si che il passo del Cristo segni il suo passo fino a chiedere con la preghiera “Absorbeat” di “morire per amore dell’amore tuo” (FF277). Per Francesco l’esperienza del dolore e della malattia, che segna il suo cammino, sono un mezzo per essere ancora di più unito al Cristo crocifisso. L’esperienza delle stimmate rivela il suo cuore bruciato dall’amore per il Signore, esse sono il sigillo di quanto egli ha cercato di vivere nel corso della sua vita, essere in tutto imitatore del Signore.

Quando sale a La Verna nel 1224, egli è un uomo malato e provato dal dubbio da tante sofferenze per il suo Ordine, vive una condizione di abbandono e sofferenza, tuttavia accoglie tutto questo come grazia (FF1901), si ritira sul monte per attendere un nuovo passaggio di Dio nella sua vita sostando in preghiera. Scaturirà dalle sue labbra la preghiera più bella e piena di amore per il Signore Gesù: “Due grazie ti prego che tu mi faccia innanzi che io muoia: la prima che in vita mia io senta nell’animo e nel corpo mio, quanto è possibile quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora della tua acerbissima passione; la seconda che io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quell’eccessivo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori” (FF1919). E’ questo il culmine del desiderio che sin dagli inizi della sua conversione lo ha progressivamente animato: quello di trasformarsi in Gesù sommamente amato, diventare un’immagine compiuta del Cristo. Le piaghe di Gesù ferirono il suo cuore prima di segnare il suo corpo, il suo cammino non fu altro che lo sforzo quotidiano di immedesimarsi con Cristo. Le stimmate rendono, così, visibile ciò che era avvenuto giorno dopo giorno nel suo intimo. Nel mondo antico la parola “stigmata” indicava l’uso di imprimere sulla pelle dello schiavo il sigillo del suo proprietario: il servo “stimmatizzato” era proprietà del suo padrone e stava sotto la sua protezione, il dono della Verna esprime l’unione di Francesco a Gesù, la fedeltà al Crocifisso fino a poter dire : “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).

- Nel mio quotidiano accolgo le piccole occasioni di sofferenza da vivere con il Signore Gesù?

- Guardando a Gesù Crocifisso per me e all’esperienza di San Francesco, quali sono i desideri che animano la mia vita?

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