1 Ts 4, 3. 7
“Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità… Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione”.
1Pt 1, 14-16
“Come figli obbedienti, non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell’ignoranza, ma, come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto: Sarete santi, perché io sono santo.
Gal 5, 16
“Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne”.
La santità è Dio stesso. La santità appartiene solo a Dio perché Dio solo è santo e nel libro del Levitico troviamo: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo” (Lv 19, 2). Si, Dio è santo e con un atto di amore incomprensibile chiama anche noi a partecipare alla sua santità, alla pienezza del suo mistero, all’intimità della vita trinitaria. La Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Ecumenico Vaticano II parla di una chiamata universale alla santità nella Chiesa specificando che “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40). La santità non è una meta riservata a pochi eletti ma è il grande disegno divino per il quale “in Lui (Cristo) Dio ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” ( Ef 1, 4). Quindi al centro del disegno divino c’è Cristo nel quale Dio mostra se stesso. “In lui, in Cristo, Dio ci ha scelti”, in Gesù siamo chiamati e voluti perciò tutta l’esistenza cristiana conosce questa regola fondamentale: IN Cristo Gesù. Come dire che la santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data da quanto spazio Cristo Gesù prende dentro di noi e da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. La santità ha la sua radice nella grazia battesimale, nell’essere cioè innestati nel mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. E’ la grazia battesimale che a poco a poco opera in noi una trasformazione nella misura in cui però accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta conformando la nostra volontà alla volontà di Dio. Non basta essere battezzati: la grazia pone in noi un principio di santità, ma questo principio bisogna svilupparlo. La santità è l’incontro tra Dio che si dona e la generosa e costante risposta dell’uomo. Il battesimo ci unisce a Cristo, ma questa vita di Cristo bisogna farla passare in noi, bisogna che noi ci rivestiamo di Gesù Cristo: “Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3, 27) e “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non lasciatevi prendere dai desideri della carne” (Rm 13, 14). La prima lettera di Pietro che abbiamo ascoltato diceva di non conformarci ai desideri di un tempo, ma di diventare santi in tutta la nostra condotta. Ci sono desideri cattivi dentro di noi che ci prendono e ci allontanano dall’unione con Gesù, sono nemici della nostra santità, sono l’oggetto della nostra battaglia contro il male e costituiscono la fatica di ‘tenere pulito il recipiente’ come si diceva lo scorso incontro. Rivestirsi di Cristo e non lasciarsi prendere dai desideri della carne dice s. Paolo, come dire ‘resisti a quella forza di attrazione (lasciarsi prendere) che viene dal male e che seduce il tuo cuore’. Per non correre il rischio di portare a compimento le opere del male dobbiamo camminare con la luce e la forza dello
Spirito perché lo Spirito Santo è più forte e vince sui desideri cattivi dando la forza per vincere se stessi. “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Gal 5, 16) e continua al v. 24 dicendo che “quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri”. Si, crocifiggere la carne perché nel battesimo siamo rivestiti di Cristo Crocifisso. Ciò che noi dobbiamo crocifiggere è proprio l’ostacolo alla nostra libertà, cioè le passioni e i desideri cattivi. S. Paolo non dice di portare la croce, ma di essere crocifissi come a dire: ‘il tuo egoismo non lo devi portare o sopportare, ma lo devi crocifiggere’. In questo modo ci si unisce a Gesù e si vive di Lui: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20). La santità come vita di desiderio dove il santo asseconda i desideri che vengono da Dio e attraverso la conformità al divino volere, si libera di se stesso per accogliere in se tutto Dio e tutta l’umanità. Per questo la chiamata alla santità è rivolta a tutti perché tutti possiamo, con l’aiuto dello Spirito Santo, a poco a poco, giorno dopo giorno vincere il nostro egoismo e vivere la vita come un dono in Cristo Gesù.
Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Gaudete et Exultate al n. 15 dice: “Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinchè sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr. Gal 5, 22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: ‘Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore’ (GE 15). E andando avanti, al numero successivo, il n. 16, dice che la santità cresce attraverso piccoli gesti e fa l’esempio della donna al mercato e poi a casa che sceglie continuamente Dio senza seguire se stessa. Ciò che ci frena a volte è il fatto di volere in fondo in fondo soddisfare tutti i nostri impulsi, cioè il desiderio di vivere comodamente e quello di essere generosi, il desiderio dei piaceri di ogni genere e quello dell’amore puro, il desiderio di dominare sugli altri e quello di metterci umilmente al loro servizio ecc… Invece ci è chiesto di scegliere, scegliere Dio e inevitabilmente rinunciare a se stessi.
- Mi sento chiamato alla santità?
- Desidero essere santo?
- Santità consiste nell’unirsi a Gesù: c’è spazio per la preghiera nella mia giornata?
- I miei desideri mi portano a Dio o mi chiudono in me stesso?
La Lumen Gentium del Conc. Ec. Vat. II al n. 42 dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. Il vero discepolo di Gesù è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo e siccome “Dio ha riversato il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato” (Rm 5, 5), il dono primo e più necessario è la carità con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. L’amore verso Dio ha il suo banco di prova, la sua verifica, proprio nell’amore verso il prossimo, nel cui volto Egli ha detto di nascondersi; per cui, alla luce della fede, servendo il prossimo, si serve, si ama, si adora Dio. La pratica della carità è il termometro della nostra vita interiore che deve essere essenzialmente amore di Dio. La carità verso gli altri non è che l’estendersi e l’irradiarsi di quella che dobbiamo avere per Dio. Non c’è dunque che un amore: l’amore di Dio e l’amore del prossimo per Dio. Nella pienezza di questo amore consiste la santità. La santità è carità in atto: adorazione di Dio e servizio del prossimo per amore di Dio. Papa Francesco nella Gaudete et Exultate dice che “se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio dobbiamo vivere secondo una grande regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati” (GE 95). Egli si riferisce al capitolo 25 del Vangelo di Matteo (vv. 31-46) ossia il
giudizio finale nel quale saremo giudicati sull’amore: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete……” Il Papa chiede a tutta la Chiesa di vivere le Beatitudini (che abbiamo già incontrato nell’ultimo incontro del cammino della sobrietà) e la grande regola di comportamento del giudizio finale (GE 109) raccomandandoci di tentare di incarnarli. “Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia (GE 107). Mt 25, 31-46 dice che siamo giudicati in base a ciò che facciamo agli altri consapevoli che ogni altro, è sempre l’Altro! Noi amiamo Dio amando il prossimo e le opere di misericordia che possiamo fare le facciamo a Dio perché Gesù si identifica con chi ha fame, sete, è nudo, forestiero, carcerato… Gesù è molto chiaro: “l’avete fatto a me” (v. 40). Gesù è presente in ogni fratello più piccolo, addirittura secondo le parole stesse di Gesù, lo troviamo anche nel carcerato cioè in chi non è giusto, non è pulito davanti a Dio e agli uomini. Se Gesù è presente in ognuno vuol dire che le occasioni per venire in contatto con Dio e fare esperienza del divino sono a noi offerte 24 ore su 24 attraverso il contatto con chi ci è vicino in famiglia e con chi incontriamo. La possibilità di unirsi a Gesù nel quotidiano è alla portata di tutti. Quello che facciamo agli altri nel bene e nel male lo facciamo a Lui, quindi nulla come il prossimo rende prossimo Dio, per cui ogni incontro con l’uno è appuntamento con l’altro. Qualunque amore che non vede Dio nell’altro resta superficiale ed è destinato a morire. San Giovanni dice che “noi possiamo amare perché Dio ci ha amati per primo. Se uno dice: ‘Io amo Dio’ e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 19-21). Ogni gesto di carità piccolo o grande che sia, fosse anche solo un sorriso, attraverso il fratello lo facciamo a Dio e ricambiamo così il grande amore che Lui ha per noi. Amiamo Dio attraverso l’amore per il prossimo e d’altra parte da come amiamo il prossimo possiamo capire come amiamo Dio. Se il mio amore per gli altri è vero e buono, allora il mio amore per Gesù è vero e buono perché non ci sono due amori. Già il Deuteronomio ammoniva: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13, 4). Amare gli altri spesso è una prova, una grande fatica, a volte non riusciamo neanche a sorridere a chi è pesante e scortese; l’amore per il prossimo fatto di piccoli gesti è un banco di prova per “sapere se amate il Signore vostro Dio”. Papa Francesco dice: “La forza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale” (GE 109).
- Santità è carità pienamente vissuta: posso dire di essere in un cammino di santità?
- Sento che l’amore di Dio e l’amore per il prossimo sono un unico comandamento?
- Sono misericordioso con chi mi sta accanto?
- Riesco a vedere Gesù negli altri?
Un esempio luminoso di santità lo troviamo in s. Elisabetta di Ungheria, di cui oggi ricorre la festa, patrona del Terz’Ordine francescano. Nasce in Ungheria nel 1207. Fin da piccola amava il gioco, la musica e la danza ma la sua più grande gioia era fare l’elemosina per alleviare le sofferenze dei poveri. Questa sensibilità nei riguardi dei poveri l’aveva ereditata dai suoi genitori che da buoni regnanti cercavano di venire incontro, come meglio potevano, alle necessità dei loro sudditi. All’età di quattro anni viene portata in Germania per essere fidanzata a Ludovico, di undici anni, figlio di Hermann I, Conte di Turingia. Tra i due bambini nasce subito affetto e simpatia che sboccerà poi in un vero e proprio amore. All’età di quattordici anni Elisabetta va in sposa a Ludovico e sarà madre di tre bambini. Ella praticava assiduamente le opere di misericordia: dava da mangiare e da bere a
chi bussava alla sua porta, procurava vestiti, pagava i debiti e si prendeva cura degli infermi. Scendendo dal suo castello, si recava spesso, con le sue ancelle, nelle case dei poveri portando pane, carne, farina, altri alimenti e consolazione. Fin dai primi anni a Corte il suo atteggiamento suscitava critiche e malumori tanto da venire chiamata “piccola zingara ungherese”. Tuttavia il marito non solo non era dispiaciuto della sua carità ma la sosteneva e a chi la accusava rispondeva: “Fin quando non mi vende il castello, ne sono contento!”. In Elisabetta l’amore per Dio andava di pari passo con quello per i poveri. Una volta nella festa dell’Assunzione, entrando in Chiesa, Elisabetta si tolse la corona, la depose dinanzi alla croce e rimase prostrata al suolo con il viso coperto e di fronte ai rimproveri della suocera rispose: “Come posso io, creatura miserabile, continuare ad indossare una corona di dignità terrena, quando vedo il mio Re Gesù Cristo coronato di spine?”. E come si comportava davanti a Dio, allo stesso modo si comportava verso i sudditi e i poveri. Ad una sua cara amica, Guda, confidò che Gesù si era mostrato a lei molte volte nell’Eucaristia e nella povertà. Un giorno, mentre distribuiva il cibo al cancello del castello, vide Gesù tra i mendicanti. Egli toccò quelli intorno a sé ed i loro volti cambiarono in Lui, mostrandole che poteva vederlo nei poveri, negli ammalati, deformi e indesiderati. Ella capisce che Gesù le chiede di prendersi cura degli afflitti. Amava teneramente Ludovico e diceva: “E’ in Dio che io amo mio marito; possa Dio che santificò il matrimonio, concederci la vita eterna”. C’è un episodio nel quale Elisabetta porta nel suo letto un lebbroso e subito la cognata Agnese ne informa Ludovico accusando Elisabetta di esagerare troppo, ma nel momento in cui scorgono quest’uomo nel letto, i lineamenti sfigurati cambiano davanti ai loro occhi nel volto di Gesù. E Ludovico dice: “Elisabetta, cara sorella, è Cristo che hai lavato, cibato e di cui ti sei presa cura. Facciamo tutti e due ciò che possiamo per servirlo, servendolo nei Suoi poveri che soffrono”. Il segreto di Elisabetta è che aveva scoperto veramente Dio e alla luce di Dio scoprì anche l’uomo, immagine di Dio. Solo chi trova Dio può diventare anche veramente umano. Elisabetta visse vedendo Dio negli uomini perché vinse se stessa, vinse l’egoismo naturale che tutti abbiamo e andò dai poveri partendo da Dio, cercando Dio e chi cerca Dio nei più bisognosi viene a sua volta introdotto più profondamente in Dio e lo conosce veramente. E viceversa: chi ha tempo per Dio, chi vive un’intensa vita di preghiera trova più facile servire gli uomini e amarli. Quindi agli altri si va partendo da Dio e cercando Lui in loro. Un’altra santa più vicina a noi, Teresa di Calcutta, al mattino, dopo la preghiera, usciva con la corona del Rosario in mano per andare nei bassifondi di Calcutta dicendo che andava a cercare Gesù. Lo aveva incontrato nella Messa e nell’Eucarestia e ora doveva saperlo riconoscere in chi è sfigurato dalla povertà, dalla miseria, dal peccato.